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A Dribble of Ink - Giu.07
In quella ch’è già, probabilmente, la più grande intervista fatta da A Dribble of Ink, abbiamo oggi una delle più importanti scrittrici del suo genere, la signora Robin Hobb! Hobb è l’autrice dell’acclamata trilogia dei Lungavista, della trilogia dei Mercanti e della trilogia dell’Uomo ambrato, e quest’anno verrà dato alle stampe I rinnegati della foresta, l’ultimo libro della sua quarta serie, Il figlio soldato, fantastica saga ambientata in un mondo totalmente nuovo, tanto affascinante quanto quelli da lei creati in passato.

Ma ho già detto abbastanza, perciò diamo ora la parola alla signora Hobb!


Robin, prima di tutto vorrei ringraziarti per aver trovato il tempo di fare due chiacchere con me, qui a A Dribble of Ink!

Alcuni lettori potrebbero non sapere che Robin Hobb è in realtà uno pseudonimo, e che tu scrivi anche col tuo vero nome, Megan Lindholm. Sono curiosa di sapere chi è Robin Hobb per te, e perché le sue storie sono tanto differenti da quelle scritte da Megan!

Il fantasy ha tanti sottogeneri. Per esempio c’è il genere spade-e-magia, il fantasy epico, quello umoristico, quello per giovani adulti, il fantasy che narra di animali fiabeschi e molti altri tipi. Quando cominciai a scrivere la trilogia dei Lungavista, mi stavo addentrando in un campo differente rispetto a ciò che avevo precedentemente prodotto come Megan Lindholm. Per questo, per distinguere i libri, scelsi di usare uno pseudonimo. In realtà ciò è abbastanza comune per gli autori di genere. Conosco scrittori che usano cinque o sei nomi diversi, per mantenere il mistero tra le loro differenti produzioni romanzesche, horror o fantasy. Quando scrivo come Hobb tendo a narrare storie più lunghe e dettagliate. Spesso sono anche più complesse a livello emotivo. Lo stile Lindholm non è così “rilassato”. Il soggetto stesso è di solito abbastanza diverso. Se scrivo una storia contemporanea, è molto probabilmente un prodotto Lindholm, non Hobb.



Molti dei lavori di Robin Hobb sono scritti in prima persona, una prospettiva inusuale per il genere fantasy. Cosa ti attira così tanto di questo stile narrativo?

Per me la prima persona è la voce naturale del narratore. La usiamo spesso quando raccontiamo ad amici e parenti ciò che ci è accaduto durante la giornata, o quando narriamo ai bambini le strorie della nostra infanzia. Per me è molto comodo, ed è un buon modo per catturare velocemente il lettore nelle trame del racconto. Con la prima persona il lettore acquisisce intimamente il punto di vista del protagonista, poiché viene al corrente dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti più profondi.



La narrazione in prima persona permette realmente, sia al lettore che all’autore, di entrare nella testa del personaggio e di conoscerlo a un livello non consentito dal racconto in terza persona. Quando è arrivato il momento di scrivere una nuova trilogia in prima persona, è stato difficile tenere la voce di FitzChevalier fuori dalla storia di Nevare Burvelle?

No davvero. Fitz e Nevare sono persone assai diverse. Vedono le cose in maniera differente, hanno attitudini diverse ed entrambi sono stati forgiati dal proprio tempo, dalla famiglia, dalla propria cultura e dalla propria visione del mondo. In questo senso in particolare, scrivere in prima persona non è molto diverso che scrivere in terza. Il personaggio dev’essere un’individualità in sé, senza badare se il lettore stia vedendo il suo mondo come “Io” o come “Lui”.



La trilogia dei Lungavista è stata accolta molto bene e ha introdotto molti lettori alla narrativa fantasy in prima persona. Cosa ti ha spinta a passare alla terza nella trilogia dei Mercanti? Quanto influisce sulla narrazione questo tuo scrivere da due prospettive diverse?

Quando uno scrittore usa la prima persona, è limitato nel trasmettere al lettore ciò che il personaggio conosce in quel dato momento. E questo può rendere difficile la presentazione dell’intera storia. Nei Lungavista ho risolto questo problema con un piccolo prologo ad ogni capitolo, per dare al lettore informazioni ulteriori. Anche così è stata un’impresa difficile, e spesso ho dovuto confidare nel fatto che il lettore avrebbe capito e fatto il collegamento tra gli eventi, laddove Fitz stesso non lo afferrava.

Nella trilogia dei Mercanti avevo una trama nella quale eventi importanti accadevano in luoghi diversi simultaneamente. Piuttosto che limitare il racconto all’esperienza di un solo personaggio in un dato tempo e luogo, decisi di usare la terza persona e di scrivere da molti punti di vista. Questo metodo non solo dà al lettore prospettive differenti dello stesso evento, ma permette anche all’autore di raccontare cosa sta accadendo a Borgomago e nelle Giungle della Pioggia nello stesso giorno.



Una caratteristica per la quale sei ben nota è la tendenza a mettere i tuoi personaggi in situazioni assai pesanti e tristi, che testano duramente la loro forza di spirito. Lo fai intenzionalmente, o è una conseguenza del fatto che le storie e i personaggi acquisiscono vita propria?

In tutta onestà, non penso che i miei personaggi sopportino nulla che sia più straziante, per esempio, di ciò che accade ai membri della Compagnia nel Signore degli Anelli. Credo che le sfide vengano percepite dal lettore come maggiormente dure o deprimenti poiché uso spesso la prima persona. Prendete un personaggio come Boromir, per esempio, e immaginate di leggere la storia dal suo stesso punto di vista: avvertireste immediatamente il suo tormento e il suo tradimento molto più acutamente che non “vedendo” solamente le sue azioni. Posso pensare a molti racconti fantasy in cui eroi ed eroine sopportano esperienze davvero terribili, ma sembrano meno dure perché non ci si sofferma sull’evento, che in alcuni casi non sembra avere effetti duraturi o provocare alcun cambiamento sui protagonisti. Amo le storie di Conan di R.E. Howard, ma Conan non sembra venir mai traumatizzato a lungo da niente, neppure da una crocifissione. Alla fine del racconto è sempre lo stesso forte e silenzioso eroe del principio. (Non sto denigrando Howard. Il suo è un genere di eroe diverso e le sue storie sono di altro tipo. Non penso che vorrei leggere di un Conan profondamente introspettivo!). Quando i miei personaggi vengono feriti, fisicamente o emotivamente, acquisiscono una conoscenza che in seguito può influenzare le loro azioni. Quando il lettore fa esperienza della storia, si porta dietro lo stesso bagaglio attraverso la lettura. Quindi non penso di fare cose particolarmenti cattive ai miei personaggi. Credo che questa mia fama di crudeltà dipenda dal fatto che i miei personaggi vivono profondamente le proprie vicende, e così le sente il lettore.



Uno degli aspetti più forti dei tuoi racconti è l’abilità nel descrivere personaggi maschili e femminili in maniera ugualmente avvincente e credibile, cosa che solo pochi altri autori sono in grado di fare. Hai qualche preferenza quando arriva il momento di scrivere da una prospettiva o dall’altra?

Dipende dal personaggio. Il genere è solo uno dei suoi aspetti. Di solito, quando un soggetto compare sulla scena del mio racconto, lui o lei arriva completo di nome, di un passato e, alle volte, anche con qualche traccia di futuro. Non li pianifico mai dicendo: «Bene, ho bisogno di una ladra, sui venticinque anni, mancina, dai capelli fulvi e con un lieve difetto di pronuncia che l’ha resa timida per gran parte della sua vita.» Invece qualcuno di nome Kara si fa avanti e dice: «Ho una storia da raccontarti.» Ed eccola qui. Kara può essere super femminile, o un maschiaccio, o una donna che risente delle restrizioni sessuali, o una persona che proprio non si definisce in termini di genere. E io descrivo Kara com’è. Non le direi mai: «Scusami, tu sarai un tizio di nome Karl, perché preferisco scrivere da un punto di vista maschile.» Questo vorrebbe dire prendere un personaggio e modellarlo con lo stampo. Se lo fai, ti ritrovi con un soggetto fatto con lo stampino, in una storia assai prevedibile.



Come autrice, sembra che tu abbia un rapporto davvero ottimo con Internet: ti occupi personalmente del tuo sito, gestisci un newsgroup molto attivo e pare che tu abbia accettato anche il mondo dei blog. Come fan e blogger lo trovo grandioso, per cui devo chiederti: perché Internet è così importante per te?

Internet è un male necessario. Non so dirti quante volte ho desiderato con tutto il cuore che l’intera faccenda semplicemente cessasse. E’ una distrazione e un’interruzione, e occuparsene mi porta via il tempo che dovrei impiegare per scrivere! Internet è come una persona che crea, con un’esplosione, un grande buco nella parete del mio ufficio e decide di pemettere che l’intero mondo ci sfili davanti, mentre io tento di scrivere. So che non dovrei guardare in quella direzione. So di dover scrivere. Ma poi sento il segnale di ricevuta e-mail, o qualcos’altro trilla, e vado a dare un’occhiata. Improvvisamente sono le tre del pomeriggio, e il mio personaggio è ancora in sospeso a metà frase.

Ciò detto, è essenziale per uno scrittore avere un sito. Ho realizzato presto che, se non mi fossi presentata nel web, altri avrebbero aperto i loro siti, con le loro opinioni riguardo chi io fossi e quali idee avessi. Esistono parecchi siti dedicati a Robin Hobb là fuori, ma il sito ufficiale fa sì che le persone trovino una risposta definitiva alle domande più frequenti.

L’e-mail è allo stesso tempo una maledizione e un’ottima cosa. Un tempo ambivo a essere come Isaac Asimov. Egli era solito affermare di aver risposto a ogni prima lettera inviatagli da tutti i suoi lettori. Asimov non poteva sempre mantenere con ognuno di loro una vera corrispondenza, ma almeno dava una prima risposta a tutti. Io risolsi che avrei fatto lo stesso con le e-mail, e per parecchi anni ci sono riuscita davvero. Ma alle volte ricevevo anche 15 o 30 e-mail al giorno. Provare a rispondere loro mi sottraeva tutto il tempo per la scrittura, e nonostante questo non riuscivo a esprimere nulla di veramente importante in alcuna risposta. Così RobinHobb.com è il mio sforzo per far sì che i lettori trovino risposte o informazioni generali attendibili. E il mio newsgroup permette ai fans di interagire con me o fra di loro in modo semplice. La mia e-mail poi, è disponibile come ultima risorsa. Non prometto più di rispondere a tutti!

I blog? Bene, l’ultimo post sul mio sito riflette i miei veri sentimenti riguardo al blogging. Ho una pagina su MySpace. Il mio editore l’ha creata per me. Ogni tanto ci scrivo, ma sto molto attenta a non farla diventare un’abitudine. Il mio cervello e le mie mani possono occuparsi solo di una certa dose di scrittura al giorno. Ogni post, e-mail o blog che faccio consuma buona parte del lavoro di pressione che le mie dita sopportano, prima che le mie mani siano troppo stanche o doloranti per continuare. Preferisco scrivere storie piuttosto che e-mail o blog. Quindi vorrei dire che Internet non è poi così importante per me. Portare avanti tutto ciò è più che altro una forma di autodifesa.



La prossima pubblicazione dei Rinnegati della foresta segna il completamento delle vicende di Nevare Burvelle e la conclusione della trilogia del Figlio soldato. Cosa conti di fare ora, hai già qualche nuovo progetto?

Effettivamente ho sei diversi progetti coi quali mi sto “divertendo”. Sto aspettando che uno di questi cominci a ribollire all’improvviso e mi chieda di essere scritto. Ora come ora me li sto godendo tutti, ma non penso di poter scrivere sei libri contemporaneamente. Quando avrò preso una decisione chiara in merito a quale storia realizzare, lo renderò noto sul mio newsgroup.



A Dribble of Ink è sempre alla ricerca di nuovi autori che aspirino alle luci della ribalta, quindi mi chiedevo se tu potessi fare il nome di qualche scrittore emergente che abbia davvero catturato la tua attenzione, qualcuno che senti essere un’eccitante new-entry nel mondo della letteratura fantasy!

Oh, vediamo. Credo che dovresti decisamente conoscere Patrick Rothfuss. Sia io che mia figlia poi, siamo state veramente impressionate da uno scrittore di nome Brandon Sanderson e dal suo libro, Mistborn. Penso valga la pena dare più di una semplice occhiata a entrambi.



Infine, vorrei ringraziarti nuovamente per il tempo che mi hai dedicato, so che sei molto impegnata! C’è altro che vorresti dire, prima che possiamo dichiarare questa intervista conclusa?

No, penso che tu l’abbia terminata amabilmente. Grazie per questa opportunità. E ora è tempo per me di tornare a lavorare!


A Dribble of Ink | Interview: Robin Hobb - 23.06.2007
traduzione di Roberta “Beloved” Zanella
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